domenica 26 gennaio 2014

VIAGGIO NELLE METROPOLI. ROMA 2. CONTI, RIZZO, Poltrone da burocrati, le rendite milionarie dei potenti senza volto: ecco i nuovi re di Roma, IL CORRIERE DELLA SERA, 26 gennaio 2014

ROMA - La grande ricchezza a Roma è invisibile. Sterminata e arrogante, ma senza faccia. Un giorno la società Gemma di Renzo Rubeo che lavorava per il Campidoglio contò 1.657 soggetti proprietari ciascuno di oltre 500 unità immobiliari. Patrimoni straripanti, con nomi e cognomi ignoti ai più. In qualche caso, fatto grave, anche agli uffici comunali. Angiola Armellini, per esempio aveva la residenza a Montecarlo pur vivendo a Roma, dov’è proprietaria di 1.243 appartamenti sui quali, è l’accusa delle Fiamme gialle, non pagava l’Ici né l’Imu. Suo padre Renato era uno dei padroni della città quando le giunte democristiane nascevano e morivano a ogni starnuto dei palazzinari. E l’Imu pura fantascienza.


Imposta che ha invece pagato Tommaso Addario: due milioni e mezzo nel 2012. Già alto dirigente dell’Italcasse ai tempi di quel Giuseppe Arcaini travolto nel 1977 dallo scandalo dei finanziamenti a politici e imprenditori e marito della ex proprietaria dell’impresa Vianini che fu acquistata da Francesco Gaetano Caltagirone, da anni con la Tirrena immobiliare gestisce un immenso impero di mattoni. Paragonabile, forse, a quello di Sergio Scarpellini, proprietario degli immobili affittati alla Camera a prezzi da capogiro attraverso la società Milano 90: la stessa cui fa capo anche una prestigiosa scuderia di 77 cavalli da corsa con annesso allevamento di 94 puledri e 85 fra fattrici e stalloni. E pazienza se le perdite del costoso passatempo corrono al ritmo di un purosangue, tre milioni l’anno.
Un tempo, quando le palazzine a Roma venivano su più veloci dei grattacieli di Shangai, c’erano pronti i soldi degli enti di previdenza. Con 600 miliardi l’anno da spendere compravano tutto. Anche le schifezze che allagavano intere periferie. Finché quei denari sono finiti e anziché comprare, Inps & soci hanno dovuto vendere. Invece di continuare a tirare su palazzine, allora, c’è chi ha cominciato a fare affari con la pubblica amministrazione, costruendo palazzi per uffici o sedi istituzionali. Mentre altri imboccavano la strada della rendita pura, mettendo a frutto proprietà divenute via via più gigantesche grazie ai canoni versati loro dagli enti pubblici che gli permettevano di comprare immobili senza tirar fuori un euro: pagando le rate dei mutui bancari con gli assegni delle pigioni.
Chiunque abbia intrattenuto rapporti non conflittuali con il potere ha avuto la sua occasione, in una città nella quale il mercato degli affitti passivi a spese dei contribuenti è di qualche centinaio di milioni l’anno. Con il solo Comune arrivato nel 2011 a spenderne più di cento (come sottolineava il Corriere già nel giugno 2013). Di questi, tredici milioni e mezzo per affittare, pur avendo sterminate proprietà immobiliari, gli stabili che ospitano i gruppi consiliari (!) e le commissioni comunali (!). Presi in locazione, ha scritto tempo fa il Giornale , dal solito Scarpellini: uno dei due è di proprietà dell’Inpgi, l’istituto di previdenza dei giornalisti, che l’ha affittato all’immobiliarista per 2,1 milioni il quale l’ha poi riaffittato per 9,2 (tutti i servizi compresi, beninteso), al Campidoglio.
La Roma della rendita parassitaria ha soppiantato la Roma palazzinara. Le privatizzazioni l’hanno prosciugata dei grandi centri del potere finanziario: Telecom, l’Ina, la Banca di Roma di Cesare Geronzi... E quello che non è riuscita a mangiarsi Milano è finito agli stranieri. Vedi Bnl. Una desertificazione che non ha impedito, e forse ha perfino favorito, l’avanzata dei capitali mafiosi. Fa venire i brividi adesso sapere che decine di ristoranti nel centro della città, da Pizza Ciro a Jamm ja, sono controllati dalla camorra. Scoperta già preceduta dai clamorosi sequestri alla ‘ndrangheta del Cafè de Paris di via Veneto e dell’Antico Caffè Chigi, di fronte alla sede del governo, che aprono squarci inquietanti sulla facilità di infiltrazione della criminalità organizzata. Per troppo tempo ignorata, sottovalutata, o peggio ancora: tollerata. All’ombra di una burocrazia sempre più pervasiva quanto disinteressata ai destini della città.
Per lo scrittore napoletano naturalizzato romano Raffaele La Capria - autore del libro «Roma» di prossima uscita per Mondadori - «la burocrazia è il vero potere romano. Una burocrazia parassitaria, che si autocontrolla e si autogoverna, alimentando i propri parassiti, espressione di una certa borghesia che colloca negli uffici i propri esponenti per ottenere un reddito. Si dice che tutte le strade portino a Roma. È vero, ma è anche vero che tutte le strade muoiono a Roma, così come muoiono le idee e la fantasia, sempre per colpa della burocrazia che paralizza, blocca, rallenta non solo la vita della capitale ma dell’intero Paese. La burocrazia romana è insomma una specie di potentissima dittatura all’interno della democrazia».
Forse anche per questo i quattrini non hanno mai smesso di girare intorno alla cosa pubblica. Capace di tenere insieme nello stesso calderone la politica con gli affari. Così da far dire a un profondo conoscitore di Roma qual è l’archeologo Andrea Carandini: «Ignoro dove sia il vero centro di potere di questa città. Forse ancora i costruttori...». L’odore delle loro tracce, in effetti, si sente dappertutto. Anche alla Pisana, quartier generale del consiglio regionale del Lazio, dove la commissione Ambiente, quella che ha competenze sull’uso del suolo, era presieduta fino all’anno scorso da Roberto Carlino, il titolare della Immobildream: quella che «non vende sogni, ma solide realtà». Ovvero, l’agente immobiliare dei vari Caltagirone, che occupava anche una poltrona nella commissione Urbanistica. Tiè.
E forse la poltrona da sindaco non è stata contesa a Ignazio Marino, alle ultime elezioni, da Alfio Marchini? Per i maligni il nipote dei fratelli costruttori Alfio e Alvaro, che per aver donato il Bottegone al Partito comunista si beccarono l’epiteto di «calce e martello», sarebbe stato il vero candidato di Francesco Gaetano Caltagirone. Sospetto che Marchini ha sempre sdegnosamente rigettato, senza peraltro smentire gli ottimi rapporti con Caltagirone: dieci anni fa i due progettarono di scalare insieme Metrovacesa, il secondo gruppo immobiliare spagnolo.
Ma sbaglia chi oggi crede di individuare in figure come quella del proprietario del Messaggero l’unico nocciolo duro del potere nella città. Sulla portata della sua influenza a proposito di certe decisioni politiche e grandi affari che si muovono in città non ci sono dubbi. Al tempo stesso, però, il baricentro del business di Caltagirone si sta spostando sempre di più fuori dei confini italiani. E di sicuro non è andata in porto un’operazione, della quale si è molto parlato, per cui poteva finire nelle mani di Caltagirone il regno della spazzatura dell’ottantasettenne Manlio Cerroni, proprietario di un gruppo imprenditoriale da 800 milioni l’anno che si estende dal Brasile all’Australia, costruito partendo dalla discarica più grande d’Europa, quella di Malagrotta. Uno degli uomini più potenti di Roma. In grado, è la tesi dei giudici che ora l’hanno messo agli arresti, di fare il bello e il cattivo tempo con le amministrazioni. Al punto da portarsi dietro il soprannome di «Supremo».
La capitale degli interessi. La verità è che a condizionare la politica romana, incapace di pensare in grande come si converrebbe a una capitale europea, sono tanti interessi diversi. Anche quelli apparentemente più piccoli. Un caso? Vicepresidente del consiglio comunale è un giovanotto di nemmeno trentadue anni, che risponde al nome di Giordano Tredicine, eletto per la seconda volta. È un esponente della famiglia che controlla una bella fetta del commercio ambulante in città. Immigrati a Roma nel 1959 dall’Abruzzo, controllano l’80 per cento della rete dei camion bar collocati nelle aree turisticamente strategiche. Alla Camera di commercio risultano quasi settanta diversi esponenti della famiglia registrati come titolari di licenze. Per non parlare delle pressioni che hanno reso impossibile per vent’anni prendere una decisione che sarebbe stata naturale in qualunque città del mondo.
Ricorda bene, l’ex assessore Walter Tocci, l’inferno che si scatenò quando la prima giunta di Francesco Rutelli, della quale faceva parte, propose di vietare il transito dei veicoli a motore nella zona archeologica più importante del mondo, quella dei Fori imperiali. Per primi insorsero i tassisti. Quindi gli operatori turistici. E i negozianti. Di conseguenza il povero Colosseo non è stato mai affrancato dalla indecente condizione di gigantesco spartitraffico annerito dallo smog.
Nel 2010 Legambiente ha calcolato il passaggio di 2.120 veicoli l’ora, con un rumore perennemente superiore al limite massimo dei 70 decibel. Appena eletto, Marino ha annunciato la chiusura al traffico dei Fori: auguri. Per ora la ex via dell’Impero è chiusa appena a metà, e unicamente al traffico privato. In quella metà continuano a passare bus, taxi, auto blu... Nell’altra è tutto esattamente come prima. Un’operazione di semplice facciata, insomma. In linea con le titubanze che stanno segnando questi primi sette mesi di mandato del nuovo sindaco.
Le nomine, per esempio. La legge prevede che entro 45 giorni dall’insediamento i sindaci debbano provvedere alle designazioni di propria competenza. Nonostante ciò da sette lunghi mesi il Palaexpo, cioè l’azienda speciale che governa le Scuderie del Quirinale e il Palazzo delle Esposizioni, è senza vertice. Con ripercussioni potenzialmente gravissime considerando che le Scuderie sono uno dei rari spazi espositivi di altissimo livello in Italia che organizzano mostre di caratura internazionale.
Senza vertice è pure il Macro, il museo di arte contemporanea ristrutturato con 40 milioni di euro che rischia di diventare una costosissima scatola vuota perché privo di programmazione. Da sette mesi è poi vacante il posto da sovrintende comunale. L’assessore alla Cultura Flavia Barca, sorella dell’ex ministro Fabrizio Barca, punta su persone esterne all’amministrazione. Ma il bando dev’essere ancora pubblicato. Tutto questo mentre a causa delle difficoltà economiche il Comune sta progettando un drastico taglio ai finanziamenti della cultura.
Quindi i vigili urbani. Dopo un duro contrasto con il vecchio comandante Carlo Buttarelli, ereditato dal suo predecessore Gianni Alemanno, Marino designa il sostituto nella persona di Oreste Liporace, capo dell’ufficio relazioni con il pubblico del comando generale dei carabinieri. Nemmeno una settimana e si scopre che Liporace non ha i requisiti previsti non solo dal regolamento della polizia municipale ma anche dall’avviso pubblico stilato proprio dal gabinetto del sindaco: il comandante dev’essere stato dirigente almeno per cinque anni. Liporace dunque rinuncia. Pochi giorni dopo arriva al suo posto Raffaele Clemente. Che già a dicembre, mentre Marino è in Turchia, pensa di dimettersi perché lasciato da solo nel confronto con il potentissimo sindacati dei vigili che minacciano di bloccare la città con gli scioperi.
Poi c’è il caso dell’Ama. Dopo aver esaminato una montagna di curriculum, il 10 gennaio il sindaco mette Ivan Strozzi alla guida di un consiglio di amministrazione ridotto a tre membri. Ma il 16 dello stesso mese deve dimettersi: c’è un’indagine a suo carico, con avviso di garanzia da parte della procura di Patti, per una vicenda di sette anni fa quando era a capo di un’altra municipalizzata.
E che dire dell’Acea? Durante la campagna elettorale Marino subisce la conferma in blocco dei vertici. A cominciare dal presidente Giancarlo Cremonesi, sostenitore della campagna di Gianni Alemanno, e dall’amministratore e direttore Paolo Gallo gradito a Caltagirone. Al loro fianco, due rappresentati del socio francese Gdf, un dirigente del Comune, Francesco Caltagirone junior, l’ex parlamentare del Pdl Maurizio Leo, il consorte dell’ex guardasigilli Paola Severino, Paolo Di Benedetto, nonché il segretario generale della dalemiana fondazione Italianieuropei Andrea Peruzy.
Faraonici gli emolumenti: 408 mila euro al presidente, 1,3 milioni all’amministratore, circa 120 mila euro agli altri. Totale, oltre due milioni l’anno, da pagare comunque fino al 2016 in caso di licenziamento. Il che rende decisamente più complesso l’avvicendamento. Mentre il tempo passa.
Ma non riesce, Marino, nemmeno a scalzare Cremonesi dalla presidenza della Camera di commercio, snodo cruciale di poteri e interessi sul territorio. In compenso, Stefano Caviglia sostiene sul mondadoriano Panorama che lo staff suo e dei suoi assessori è arrivato a 97 collaboratori, di cui 96 ingaggiati, testuale nell’articolo, «senza procedure pubbliche» e punta a scalare quota 108.
Fatto sta che ora alla pratica Cremonesi ha deciso di provvedere Nicola Zingaretti, proponendo il commissariamento della Camera di commercio. Il sindaco in realtà doveva essere lui. Poi, quando la Regione Lazio è saltata per aria in seguito agli scandali di Batman & co., ha scelto di correre per il meno prestigioso incarico di governatore del Lazio. Marino ha vinto le primarie e ha ottenuto un successo elettorale pieno, ma è diventato primo cittadino della capitale quasi per caso. E il Partito democratico, a Roma, non è nelle sue mani: lo tiene saldamente in pugno Zingaretti. Che qualcuno, di fronte alle difficoltà e alle indecisioni del Campidoglio, arriva a considerare una specie di sindaco ombra.
Spiegano così, i soliti dietrologi del Palazzo, le affettuosità che gli dedica ripetutamente il Messaggero di Caltagirone, cui risponde a colpi di querele. Il grande elettore di Marino, quel Goffredo Bettini per anni direttore d’orchestra del Pd romano, non nasconde il proprio pentimento. Rimprovera al sindaco la gestione della cultura e il disinteresse verso il Festival del cinema, che considera una propria creatura. Giudizi forse ingenerosi, almeno quanto la battuta maligna che circola negli ambienti democratici più critici verso Marino, equiparato al personaggio interpretato da Peter Sellers nel film «Oltre il giardino»: Chance il giardiniere. È il masochismo della sinistra, specializzata nel fuoco amico.
Tanto più perché il sindaco sta pagando colpe non sue. Non lo aiutano le condizioni economiche disastrose del Comune: un disavanzo strutturale di 1,2 miliardi, con l’impossibilità materiale di contrarre debiti. Un freno micidiale a qualunque progetto di respiro, sempre che ce ne siano. A questo si aggiunga la valanga dei circa 4 mila dipendenti in più nelle società comunali graziosamente ereditata dalla precedente gestione.
Sarebbe poi ingiusto non riconoscere a Marino le cose fatte. Per la prima volta quest’anno è saltata la cosiddetta manovra d’aula: indecente distribuzione di soldi ai consiglieri comunali. Il sindaco va poi orgoglioso della scelta di chiudere Malagrotta, come pure della decisione di bloccare lo sviluppo urbanistico e lo sconsiderato consumo del suolo.
Governare una macchina come quella del Comune di Roma, inoltre, non è certo facile. Non lo è stato per i volponi della politica, romani. Figuriamoci per un chirurgo genovese con una lunga esperienza americana. Anche se chi ha voluto la bicicletta poi è giusto che pedali. Nonostante la strada in salita.
Le dimensioni, innanzitutto.
Il Campidoglio alimenta 62 mila buste paga, di cui 37 mila delle aziende municipalizzate: un groviglio di un’ottantina di scatole societarie. Quindi la complessità dei problemi. Basta pensare alla faccenda della Metro C, con i vincoli pazzeschi della zona archeologica e i costi mostruosi. Ma anche alle questioni che si presentano giorno per giorno. Le sole tre aziende più grandi, l’Atac, l’Ama e l’Acea, occupano 31.338 dipendenti, oltre 4 mila più di tutti i dipendenti degli stabilimenti italiani della Fiat Chrysler. L’Atac ne ha 12.276, il servizio è penoso e i conti sono un colabrodo con perdite di 1,6 miliardi negli ultimi dieci anni, vero. Ma in sette mesi non si è vista un’idea. Con le sue controllate, l’Ama paga circa 11.805 stipendi e non è mai stata un esempio di cristallina efficienza, verissimo. Ma l’igiene urbana è quella che è e i cittadini di Roma pagano le tasse più alte d’Italia.
Scendendo di scala, altre situazioni danno seriamente da pensare. Come le farmacie comunali, che hanno 362 dipendenti e 15 milioni di debiti. O Risorse per Roma, una società letteralmente inventata per fare da consulente al Campidoglio e assumere 565 persone. Società che a sua volta ha poi gemmato un’agenzia battezzata con un nome rigorosamente inglese: «Roma city investment». A che cosa serve? A «promuovere la crescita del sistema informativo territoriale romano e l’attrazione degli investimenti necessari per la realizzazione dei progetti di rigenerazione urbana».
In attesa che l’Urbe venga rigenerata, a Risorse per Roma hanno dato da smaltire le 150, forse 200 mila pratiche arretrate del condono edilizio. Uno dei capitoli più bui nella storia della città, su cui sarebbe doveroso fare luce. E non soltanto negli uffici comunali. Soprattutto per quei 5.900 abusi che erano stati scoperti grazie alle fotografie aeree e per i quali era stata presentata la domanda relativa all’ultimo condono berlusconiano ancora prima di costruire. Quasi seimila casi per cui sono stati colpevolmente lasciati scadere i termini di prescrizione del giudizio penale. Con il risultato che nessuno dei responsabili dovrà risponderne davanti alla giustizia. Roma è anche questa.
(L’INCHIESTA/ Viaggio nella metropoli 2 - fine)
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