lunedì 14 novembre 2011

SPAZIO E CITTA'/Giufrè M., Sulle città mediterranee un marchio neoliberista, IL MANIFESTO, 13 novembre 2011

Non è scontato ripetere che attraverso le scienze sociali si può comprendere il mutamento delle città nell’epoca del tardo capitalismo in modo migliore di quanto oggi non facciano architettura e urbanistica a causa del loro ruolo subalterno alle logiche affaristiche delle trasformazioni urbane. Ne è un esempio eccellente la recente pubblicazione Città mediterranee e deriva liberista (Mesogea 2011, pp. 199, euro 20) a cura di Salvatore Palidda, che raccoglie i contributi di diversi sociologi e antropologi su alcune delle più importanti realtà urbane affacciate sul bacino del Mare nostrum.


Filo conduttore di tutti i contributi è l’idea che la «rivoluzione liberista» ha non solo prodotto una modificazione profonda della produzione delle merci e del loro commercio, ma ha trasformato la qualità dell’esistenza dei cittadini alle prese con processi sconosciuti prima della globalizzazione, soprattutto per le dimensioni e la velocità con le quali questi processi si sono manifestati.
Nei paesi mediterranei la deregolamentazione economica e sociale che caratterizza la «città del neoliberalismo» – nell’accezione che ne ha dato Annik Osmont, cioè di un «prodotto sottomesso» al sistema normativo dei mercati finanziari – assume però aspetti singolari. È il caso delle città portuali di Tangeri, Napoli e Istanbul, da più di un decennio studiate da Michel Peraldi. La sua paziente indagine socio-economica e storica ha evidenziato come il «miracolo» del capitalismo mercantile che ha interessato alla fine degli anni ’80 queste città frontaliere, non sia stato altro che un intreccio di commerci redditizi – perché concentrati – e di traffici illegali. La combinazione di questi due elementi si è manifestata ovunque in un aberrante sviluppo immobiliare non giustificato da alcun incremento demografico. Queste città ai «bordi del mondo», in precedenza afflitte dal degrado e da un «passato sulfureo», nel giro di pochi decenni hanno avuto un’imprevista «rinascita». Istanbul è stata avvantaggiata dal crollo dell’impero sovietico, dal declino marsigliese nel commercio con il Maghreb e dai conflitti in Medio Oriente, mentre Tangeri ha trovato profitti nello sviluppo turistico e nella delocalizzazione delle industrie europee. Napoli, infine, ha goduto degli effetti provenienti dai distretti industriali della
confezione. In ognuna di queste realtà urbane di frontiera si sono sovrapposte molteplici tipologie di commerci, leciti e illegali, che configurano nuovi aspetti del capitalismo, oltre a quello mercantile tradizionale, con la questione connessa alle sue forme di «moralizzazione». La condizione di nuovi modi di produrre e consumare le merci significa mettere però in discussione la stessa definizione di modernità. Una sua declinazione «distorta» è descritta da Antonello Petrillo in riferimento a Napoli globale e «plebea» dove, dopo la retorica della «rinascita» urbana degli anni ’90, convivono due città, «quella moderna e colta perennemente afflitta dall’arretratezza
dell’altra». Alla gentrificazione delle sue aree centrali ha corrisposto la crescita di una periferia disordinata e densa, nella quale una miriade di imprese, nate dalla delocalizzazione delle grandi aziende nazionali e transazionali, trova non solo forza-lavoro in eccedenza, ma sostegno e protezione dalla malavita organizzata. Napoli non sembra presagire il futuro del mondo globalizzato, ma lo rappresenta a tutti gli effetti. Così come accade nella nuova Tunisi narrata da Silvia Finzi, dove solo la recente rivolta popolare ha saputo fermare, almeno per il momento, la speculazione immobiliare del megaprogetto Berges du Lac opera di società degli Emirati Arabi e europee. Anche questo intervento, che rientra nella definizione di «urbanismo globale» non risolverà lo storico dualismo di
Tunisi – da un lato la città storica con i quartieri della Medina e dall’altra la città europea e coloniale –, ma piuttosto restituirà ancor più estranei, perché stravolti, i luoghi dell’identità e della tradizione araba. Costruire «vetrine urbane» e «miniparadisi
del consumo» è il solo modo che conosce il liberismo economico nel suo operare convulso. A questi risultati è indubbio che si sia arrivati con la progressiva perdita dei dispositivi di pianificazione centralizzata ed è altrettanto vero che ne abbia profittato la «logica del progetto». Scrive André Donzel: «Mentre il piano fissava e organizzava in modo centralizzato e normativo lo spazio e il tempo sociale, il progetto funziona con un principio incitativo dell’azione collettiva con gratificazioni future più o meno personalizzate». Il «nuovo spirito» che avvolge Marsiglia è proprio l’avanzare della «cité per progetto». Per intenderci, l’idea diffusa che solo con la persistente attenzione agli aspetti di governance del territorio, quindi alle diverse connessioni tra istituzioni pubbliche e imprese private, si può ottenere il risultato apprezzabile di un avanzamento delle politiche sociali ed economiche. La realtà marsigliese si manifesta, quindi, come un osservatorio privilegiato per comprendere le «città delle reti» che Donzel (e noi con lui) non crede contribuiscano a una maggiore socializzazione. I loro processi di decostruzione conducono invece all’«anomia» – un male, secondo Durkheim, più insidioso della povertà. Inoltre il passaggio di Marsiglia da città portuale a centro metropolitano di commerci internazionali ha posto serie questioni di rappresentanza e identità per le municipalità più piccole inglobate nel processo di
integrazione metropolitana che le «riforme neomanageriali» francesi hanno guidato secondo le logiche della rendita finanziaria. La contropartita perché le politiche liberiste si affermino senza conflitti è l’investimento nelle risorse culturali della città e la loro massima visibilità. «Cultura e sfratti» vanno di pari passo come racconta Manuel Delgado nel suo saggio su Barcellona. In pagine intense Delgado narra la commistione tra la riappropriazione capitalista delle città – la sostanza della gentrificazione – e l’«artistizzazione» che le nuove architetture e lo spazio pubblico devono assumere per giustificare l’espulsione dei ceti meno agiati dal centro storico della città catalana. Dovunque si sono erette «protesi decorative», ma nulla che assumesse almeno il carattere dimostrato a Bilbao con Gehry o prima a Parigi con Piano: d’altronde il Beaubourg è stata l’opera precorritrice di tutte le successive riconversioni
urbane. Il tema della cultura come strumento di benefici economici applicato alla città è un campo vastissimo di indagine quanto gli itinerari, sempre di natura culturale, proposti, a conclusione del saggio, da Franck Mermier riguardo a Beirut e la questione della sua marcatura identitaria come appropriazione, più o meno simbolica, del territorio; o in un’area più estesa, qual è lo stato di Israele, da Haim Yacobi. La «conquista dell’agorà» resta alla fine l’orizzonte ideale nel quale per tutti si rivolge lo sguardo affinché si affermi una convivenza senza violenze. Le foto delle piazze festanti delle
genti di Tunisi e del Cairo dopo la cacciata dei loro dittatori, inserite da Palidda nel volume prima di andare in stampa, ne rappresentano il migliore segno di speranza.

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