sabato 5 novembre 2011

ARCHITETTURA E POTERE. VALENTINO P., Quelle archistar alla corte dei potenti, CORRIERE DELLA SERA, 5 novembre 2011


Il nuovissimo quartier generale della televisione di Stato cinese domina e nobilita lo skyline di Pechino. Il grattacielo sghembo, torto e ripiegato su se stesso, disegnato dall'olandese Ole Scheeren, partner dell'architetto cult Rem Koolhaas nello studio Oma, è già entrato di diritto tra i grandi edifici del Terzo Millennio.
Ad Astana, capitale del Kazakhstan, la città costruita dal nulla nella steppa asiatica, a marchiare il paesaggio urbano è la forma piramidale che Lord Norman Foster, già ideatore della cupola del Reichstag di Berlino, ha dato al Palazzo della Pace e della Riconciliazione.

Entro il 2012, verrà completato il Louvre di Abu Dhabi, un progetto pensato dal francese Jean Nouvel, parte del complesso culturale di Saadiyat Island, dove saranno impegnati anche l'americano Frank Gehry, padre del Guggenheim di Bilbao, e l'anglo-irachena Zaha Hadid, celebre in Italia per il Maxxi di Roma.
Cosa lega queste opere architettoniche, oltre a essere firmate ognuna da altrettante stelle della disciplina, o come vuole il neologismo da archistar? Sono tutte costruite in Paesi autoritari o nel migliore dei casi autocratici.


Sono tutte cioè frutto della volontà di auto-rappresentazione di un regime o di un leader, che con la democrazia hanno poco o nulla a che fare. E non sono eccezioni, ma gli esempi più emblematici di una sorta di corsa all'Est, che negli ultimi anni ha visto schiere di studi d'architettura occidentali gettarsi a capofitto nei cantieri delle arrembanti potenze economiche d'Oriente.

Proprio per questa ragione si trovano al centro di polemiche e controversie, corni di un dibattito antico e millenario, ma in questi mesi riacceso da nuovo vigore e punte inedite di virulenza polemica.

È giusto progettare il tempio dell'informazione televisiva, per conto di un Paese che trova nella censura uno dei pilastri della sua stabilità? O edificare un luogo dedicato alla «pace e alla convivenza tra i popoli» a maggior gloria di Nursultan Nazarbayev, cacicco dell'ultimo Politburo dell'Urss, presidente che viene eletto col 92% dei voti e guida un Parlamento composto di soli deputati del suo partito? E ancora, non sarebbe il caso di porsi un problema etico, di fronte all'abuso di migliaia di lavoratori immigrati, sottopagati e tenuti in condizioni subumane, che è pratica comune nei cantieri edili degli Emirati del Golfo?

Francesco Dal Co, direttore di Casabella, non nega l'«esistenza di un problema morale», ma allarga il campo. «Da Giustiniano ai Papi, ai principi del Rinascimento, tutta la storia dell'architettura è stata scritta da opere edificate a maggior gloria del committente. Leon Battista Alberti diceva che ogni lavoro architettonico è "figlio di un padre e di una madre". Appunto, l'architetto e il principe». Con una differenza sostanziale, che gli edifici sfidano i secoli e gli autocrati passano: «Il problema per un architetto è concepire cose in grado di sopravvivere alla celebrazione di un potere contingente: nel rapporto critico col grande committente, un grande artista cerca la sua vera libertà. Quello che non avviene nel caso di Albert Speer e Hitler, dove l'architetto annulla ogni ricerca di libertà e accetta con la sua opera di dover rendere eterno il regime». Detto questo, Dal Co ammette che avrebbe «molti dubbi a progettare per un dittatore».

«L’architettura racconta una storia, è rappresentazione di una civiltà e di una comunità - dice Renzo Piano - e dove c'è un regime autoritario non c'è civiltà». Probabilmente il più cosmopolita dei grandi architetti contemporanei, Piano rifiuta ogni facile moralismo, ma dice semplicemente: «Avrei serie difficoltà ad accettare di raccontare una storia che non mi piace».

Alcuni architetti si sono dati una carta dei princìpi. È il caso di Richard Rogers, che proprio con Piano firmò negli anni settanta il Centre Pompidou a Parigi, ormai un'icona culturale della capitale francese. Il suo studio, Rogers Stirk Harbour + Partners, accetta solo lavori che portino un beneficio alla società, rifiuta ogni incarico da istituzioni militari o collegato a potenziali danni all'ambiente, come una centrale nucleare e valuta preventivamente le condizioni democratiche del Paese dove dovrebbe lavorare. Di recente ha declinato un'offerta per costruire un Tribunale in Arabia Saudita.

Certo, c'è progetto e progetto. «Progettare una scuola in Cina è probabilmente diverso che progettarvi il ministero della Propaganda», dice l'architetto newyorkese Michael Sorkin. «È una differenza sottile, che può mettere a posto la coscienza personale», chiosa Vittorio Gregotti, che in Cina ha lavorato per molti anni, ma mai per opere celebrative. «La cosa fondamentale però - dice il decano del modernismo italiano - è avere un rapporto critico con la realtà, una distanza dallo stato delle cose. Quello che purtroppo spesso manca proprio a tante archistar, impegnate a inseguire le mode, celebrare il marketing, teorizzare l'anti-città».

Il punto è se esista un'architettura impermeabile all'autoritarismo, dal momento che ogni edilizia pubblica celebra un uso collettivo e inevitabilmente chi lo realizza. Dopotutto, l'architettura pubblica in un regime autoritario è l'espressione fisica di una particolare nozione d'ordine, il messaggio più chiaro di come quel potere intende essere percepito.

Con voluto intento provocatorio, l'architetto milanese Mauro Galantino risponde positivamente, indicando ad esempio della possibilità di fare architettura anche in assenza di democrazia, la Casa del Fascio di Como, «opera del fascistissimo» Giuseppe Terragni: «L'architettura anti-autoritaria trasfigura la tradizione rendendola non manipolabile per la propaganda. Nella casa di Terragni, luogo, tradizione e spazio collettivo sono talmente equilibrati ed espressi con uno stile anti-figurativo da poter passare senza colpo ferire da un regime a una democrazia ed essere difesi, come fu il caso, da Bruno Zevi, esponente del Cln, che salvò l'edificio per il suo assoluto valore artistico».

Refrattaria al totalitarismo è insomma «l'architettura, che costruisce le sedi del potere con gli stessi mezzi espressivi con cui fa le case popolari». E qui Galantino rovescia l'onere della prova, con un altro genere di j'accuse alle archistar. Non tanto colpevoli di lavorare per i dittatori, quanto di «costruire cattedrali al nulla per clienti democratici, usando un'architettura dittatoriale, enfatica e celebrativa, basata sul gigantismo immotivato, che non può essere ripetuta per una casa popolare, un asilo, una chiesa di quartiere». Colpevoli, detto altrimenti, di «sostituire lo stupore all'emozione».

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