venerdì 7 ottobre 2011

Spazio pubblico. G.P. Torricelli, Potere e spazio pubblico urbano. Dall'agorà alla baraccopoli, AUP, 2009

 

Il capitolo che si è inserito in questo post è reperibile all'indirizzo seguente:  http://e-publicspace.net/content/potere-e-spazio-pubblico-urbano-dall%E2%80%99agor%C3%A0-alla-baraccopoli-1


L'autore è geografo presso l' ICup dell'università della Svizzera italiana

Capitolo 1. La scomparsa dello spazio pubblico

Le due facce dello spazio pubblico

Lo spazio pubblico urbano può declinarsi su diversi piani, forse riconducibili ad una matrice comune, di spazio delimitato e riconosciuto dalla collettività in quanto “pubblico”, idealmente aperto a tutti. Se accettiamo questa definizione e ci riferiamo ad un luogo qualunque della città (una piazza, un cinema, un caffè, una stazione ferroviaria, ...) vediamo che ci sono almeno due significati, intrinseci: lo spazio pubblico è uno spazio fisico con le sue estensioni e i suoi limiti, che definisce l’immagine della città formale differenziandola dalle altre, ma allo stesso tempo è anche uno spazio relazionale, luogo di incontro e di scambio, luogo condiviso del vivere urbano, in principio fruibile e accessibile ai più. In inglese ci sono due termini per indicare lo spazio pubblico: Public Space l’estensione fisica e dello spazio architettonico “pubblico”, misurabile e rappresentabile sui piani di utilizzazione del suolo della città e Public Realm che è invece lo spazio “sociale” o il territorio degli abitanti e degli utenti della città [1]. Questo dualismo, questa doppia faccia dello spazio pubblico sarei tentato di affermare, nutre costantemente i contenuti culturali, sociali, politici della città, che riempiono di senso (e di significato anche simbolico, anche storico) lo spazio delle interazioni e delle deambulazioni che i turisti fanno oggi nei suoi quartieri e nei suoi parchi [2]. Da questo punto di vista, lo spazio pubblico è ogni luogo della città nel quale coloro che entrano non sono predefiniti, per accedervi non occorrono permessi: qui persone tra loro estranee si incontrano e interagiscono casualmente [3]. Lo spazio pubblico è quindi anche il luogo degli incontri fortuiti e della serendipità [4], parola strana che indica la capacità che hanno talvolta gli uomini (e le donne) di trasformare gli imprevisti o gli incontri sgradevoli in opportunità, in nuove relazioni, nuovi progetti, nuove idee. Per Jacques Lévy, la serendipity scaturisce dalla co-presenza dei tanti soggetti che fanno la città ed è alla radice, almeno potenzialmente, della formazione di nuove idee, nuove forme, intuizioni o innovazioni, cose che da sempre costituiscono la ragion d’essere della città.
Lo spazio pubblico quindi possiede una metrica, può essere osservato, contemplato, misurato e disegnato su piani e progetti; ma è, allo stesso tempo uno spazio di relazione aperto, immateriale, non misurabile con la metrica euclidea. In entrambi i casi, si noti, è uno spazio di rappresentazione simbolica: rappresentazione codificata da piani e mappe nel primo caso; rappresentazione mentale, codificata dalla soggettività, nel secondo. La nozione di spazio pubblico urbano si interseca così con quella di “sfera pubblica” (o di “ambito pubblico”) [5] alla quale però non si sovrappone. Lo spazio pubblico non è la sfera pubblica, ma piuttosto ne è un’emanazione che si cristallizza nelle forme del costruito che fanno da sfondo alle rappresentazioni della città. Questo spiega perché, almeno nella nostra cultura occidentale, l’espressione “spazio pubblico” è spesso associata a quella di agorà, che etimologicamente ricorda il governo o la conduzione della cosa pubblica. Nell’Odissea (libro II) Telemaco chiama a raccolta gli Achei in quella che potrebbe essere la prima descrizione dell’agorà. La piazza, l’elemento centrale di (quasi) ogni città, ha mantenuto il ricordo di questa assemblea primordiale, nel senso che più di ogni altro elemento dello spazio pubblico urbano è il luogo in cui si forgia l’immagine della città. Storicamente la piazza fa da teatro ai ritmi delle cerimonie collettive, delle feste e delle commemorazioni della città. Queste manifestazioni delle temporalità urbane sono un messaggio, una rappresentazione complessa attraverso cui una moltitudine di soggetti vengono in qualche modo chiamati a mettersi in relazione con la città, a colloquiare con essa. Il cittadino, l’emigrante in cerca di fortuna (o semplicemente di una vita decente) o colui che vi si reca per lavoro, per affari o per svago, tutti questi soggetti sono chiamati ad identificarsi, in modi diversi, nella comunità attraverso il simbolismo delle forme della città, che costituisce gran parte del disegno dello spazio pubblico urbano. Esso non è quindi soltanto un insieme di forme fisiche, di flussi, di suoni e di rumori, è anche la manifestazione della città, il cui significato però non è uguale per tutti ed è questo che lo differenzia fondamentalmente dall’agorà. Lo spazio pubblico non è di solito un luogo di deliberazione e di decisione politica, non lo è più se non in casi eccezionali come quello delle Landsgemeinde in alcuni cantoni della Svizzera centrale. Piuttosto, per quanto riguarda piazze e monumenti, lo spazio pubblico è (era) talvolta luogo di espressione o di dibattito pubblico ed è in questo senso che va vista la relazione con l’antica agorà. Ma proprio poiché luogo di manifestazione, lo spazio pubblico diventa un vettore di immagini, in un certo senso assume le sembianze di uno specchio del potere: uno spazio fisico il cui messaggio è concepito – e la cui forma è costruita – da chi governa (da chi ha governato) la città. Questa è un’affermazione sin troppo scontata, ma proprio perciò lo spazio pubblico è anche il luogo delle tensioni sociali, ovvero lo spazio che fa da teatro al dissenso e alla protesta popolare, quindi anche quello delle manifestazioni e delle rappresentazioni alternative del governo della città.
C’è anche un significato “funzionale” dello spazio pubblico urbano, poiché una città deve gestire in comune una serie di flussi di persone, d’acqua, d’energia, di materia, di rifiuti e di inquinanti. Non si limita quindi alle apparenze, visibili nel paesaggio urbano – le strade, le vie, le piazze, i parchi, i caffè, i mercati, i luoghi dello svago, della cultura, o gli spazi collettivi del sacro o del culto. C’è anche uno spazio pubblico urbano invisibile, sotterraneo, fatto di reti idriche, di canalizzazioni, di fognature, di impianti di pompaggio e di depurazione dell’acqua, di reti elettriche e di comunicazioni, di sistemi per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, spazi che in questo saggio sono soltanto accennati [6].
Cominciamo quindi per dire che lo spazio pubblico ha due facce, che è uno spazio duale. Qualche decennio or sono, David Ley riportava un aneddoto che ho spesso usato nell’insegnamento della geografia, che forse spiega meglio di ogni altra cosa l’origine di questa riflessione [7]. Negli anni ’70 la città di Philadelphia domandò a dei ricercatori di trovare la migliore localizzazione per un parco giochi di un quartiere povero della città. Era finalmente arrivata una donazione e in accordo con le associazioni di quartiere, la città aveva fretta di realizzare questo parco. Nel locale istituto di geografia si realizzarono dei modelli di localizzazione molto sofisticati, corredati con carte che mostravano bene la densità e l’accessibilità di ogni area possibile. Alfine si giunse a scegliere la localizzazione ottimale in funzione di diversi parametri: la distanza minore dalle residenze delle famiglie, dalle scuole, del prezzo del terreno, ecc. Il luogo prescelto cadde in un terreno in disuso, adiacente alla ferrovia, effettivamente dotato di una buona accessibilità rispetto alle aree residenziali del quartiere. Il parco fu costruito e inaugurato. Ma dopo pochi mesi i genitori reclamarono, a seguito di continui episodi di violenza che accadevano nel parco, a causa di bande di adolescenti che molestavano i bambini più piccoli. Dopo meno di un anno i giochi erano distrutti, il parco disertato dai bambini. Cosa era successo? Ci si accorse che la localizzazione del parco corrispondeva alla frontiera tra i territori di due bande rivali di giovani: il parco diventò ben presto un ottimo campo di battaglia. Ciò accadde perché non si tenne conto del territorio (del vissuto), quello delle bande di adolescenti, poiché non esisteva in nessuna statistica. I ricercatori avevano considerato solo lo spazio astratto, formale delle mappe e l’avevano proiettato nei modelli di localizzazione, dimenticando il territorio vissuto lo spazio di vita, il “Public Realm” degli attori del quartiere. L’errore, fatale, non fu soltanto quello di confondere il modello con la realtà. Ma fu anche quello di non considerare la cultura della strada e il territorio vissuto come spazio pubblico [8].

L’atrofia dello spazio pubblico contemporaneo


Questo saggio era partito da una constatazione piuttosto terrena: la contrazione inesorabile dello spazio pubblico urbano al tempo della globalizzazione. In tutto il mondo, nelle città ricche e nelle città più povere, lo spazio pubblico urbano tende a diminuire e in qualche caso a scomparire, non soltanto come estensione libera o verde per abitante, ma anche come forma urbana riconoscibile in quanto pubblica. Secondo Zygmunt Bauman l’atrofia dello spazio pubblico sarebbe da ricondurre al fenomeno dell’individualizzazione, che oggi "porta a un numero sempre crescente di uomini e di donne una libertà di sperimentazione senza precedenti, ma pure l’onere – anch’esso senza precedenti – di sopportarne le conseguenze"[9]. Un esempio concreto può essere quello striscione pubblicitario che ho visto qualche tempo fa (aprile 2009) appeso all’entrata delle stazioni ferroviarie svizzere, che suonava più o meno così: Inizia da noi la tua success story! Vieni a fare un apprendistato nei trasporti pubblici. Il messaggio dice più o meno questo: vedi di non perdere l’occasione perché la tua vita dovrà essere una success story. Indirettamente il messaggio dice anche questo : "Se non lo sarà, la colpa sarà soltanto tua e te la dovrai prendere soltanto con te stesso". E’ un messaggio in qualche modo agghiacciante, indirizzato a giovani rappresentati come individui ormai soli nell’arena del loro successo… o del loro fallimento. La strategia del successo suggerita dalle agenzie pubblicitarie consiste nel pubblicizzare la sfera privata, come succede nei talk-show, altro esempio citato da Bauman, dove i partecipanti svelano le proprie intimità colonizzando di fatto lo spazio pubblico con questioni un tempo di ordine strettamente privato. L’individualizzazione conduce così a una sorta di ribaltamento del rapporto pubblico-privato, prosegue Bauman. Se nel passato la questione critica era la difesa dell’autonomia della persona dalla sfera pubblica, ovvero da uno Stato pesante, invadente e curioso, con i “suoi mille tentacoli burocratici” e con le sue imponenti rappresentazioni, oggi il compito della critica sembra essere diventato quello di “riempire e ripopolare uno spazio pubblico che va rapidamente svuotandosi”. La causa di questa rapida rimozione sarebbe da ricercare nella disaffezione, nella scomparsa ‘cittadino impegnato’, ma poi anche dalla fuga della politica dagli spazi urbani della piazza e del mercato “per rifugiarsi nella extraterritorialità delle reti elettroniche. (…) E così lo spazio pubblico va sempre più svuotandosi di questioni pubbliche. E’ incapace di assolvere il proprio ruolo passato di luogo di incontro e di dibattito di sofferenze private e questioni pubbliche” (ibid. pp. 33-34).
L’individualizzazione sarebbe così per Bauman la principale manifestazione sociale della modernità liquida, o seconda modernità, nata dalla separazione definitiva tra capitale e lavoro e concessa dall’espansione dei mercati a livello globale, dalle cosiddette liberalizzazioni che sancirono la fine del modello industriale della generazione che ci ha preceduto. Un’epoca, la nostra, nata dalla disintegrazione delle reti sociali costruite nell’era solida del fordismo, dove tutto cambia e tutto corre sulle reti elettroniche, dove le relazioni tra gli uomini si modificano continuamente e si adattano rapidamente come una massa liquida alle nuove e mutanti forme dei modelli della globalizzazione. Al punto di mettere in crisi la nozione stessa di forma. La metafora della società liquida è una chiave di lettura interessante, ritornando sul piano della città contemporanea, poiché permette di identificare o di svelare le rappresentazioni dell’ideologia neoliberale, che ha fatto da perno alla strategia dell’individualizzazione di massa, a cui corrisponde sul piano sociale la crescente precarizzazione del lavoro. Il lavoro e le sue rappresentazioni, nell’era del fordismo, erano di fatto il perno sul quale prosperavano le immagini del vivere in comune – del fare comunità e quindi, in qualche modo, del fare città. Consente quindi anche di svelare i meccanismi odierni di evacuazione del senso e del significato dello spazio pubblico urbano, costruito in un passato neppure troppo lontano con sottoscrizioni, manifestazioni popolari o lotte di quartiere. Questo svuotamento di senso e di significato è avvenuto simultaneamente allo sviluppo della televisione commerciale che ha assunto il ruolo di nuovo spazio pubblico, apparentemente postpolitico.
In Europa e in America del Nord, con il declino dell’industria e la fuoriuscita della popolazione e dei servizi dal centro della città, i centri “storici” piccoli e grandi furono spesso restaurati e patrimonializzati. I luoghi pubblici della città borghese - industriale, creati a partire dalla seconda metà del XIX secolo per rafforzare la coesione sociale, come il parco o la stazione, furono oggetto di nuove operazioni immobiliari, di creazione di spazi commerciali, operazioni giustificate con la necessità, in mancanza di fondi propri delle municipalità, di operare attraverso la partnership pubblico-privato. Quest’ultima divenne negli anni ’90 una sorta di dogma o di imperativo urbanistico, ed è tuttora perseguita dalle municipalità con poco o nessun senso critico, anzi con circospezione, vista la difficoltà odierna per realizzare qualsiasi grande progetto urbano. Ci sono segnali forse più inquietanti, come gli spazi esclusivi, isole del lusso e della globalizzazione, le gated communities o i barrios cerrados nelle città americane e sempre più nelle metropoli europee, o come l’annuncio fatto qualche anno fa dal ministro Tremonti di una possibile vendita del patrimonio pubblico per riempire le casse dello Stato italiano. Tutto ciò fa pensare che sia ormai sempre più facile per le municipalità – per mancanza di risorse, di idee, ma soprattutto per la scomparsa di un concetto condiviso di città – alienare il demanio e lo spazio pubblico, per trasformarlo in spazio commerciale, spazio del desiderio e del consumo compulsivo così caratteristico della normalità odierna del vivere urbano
[
10]. Provare a costruire nuovo spazio pubblico, nel senso discusso sopra, è invece diventata cosa ardua, soprattutto per le piccole città “di provincia”.

Dalla città-fortezza all'architettura stupefacente


È vero che le forme architettoniche del centro commerciale all’origine non dipendevano tanto dalle rappresentazioni della città, quanto da principi globalizzati di funzionalità, di marketing e di controllo dello spazio del commercio (dello shopping). Sino a qualche anno fa un negozio Carrefour di Bogotà o di Buenos Aires era del tutto simile ai Carrefour di Parigi o di Milano, anche nelle sue forme architettoniche, con i suoi banchi di frutta, di pesce, di carne, con le sue offerte speciali, i suoi punti di incontro, le sue telecamere di sorveglianza, i suoi addetti alla sicurezza. Semmai è il significato che cambiava, a seconda della città: per un abitante di Bogotá, fare la spesa al Carrefour (il negozio dei ricchi) non ha lo stesso significato sociale che per l’abitante della banlieue parigina. Tuttavia la forma e la logica erano (e sono) identiche, ossia del centro commerciale come città nella città, nelle sue versioni più spinte con l’architettura-fortezza della Los Angeles degli anni 80 e 90 [11], anticipatrice in qualche caso delle tendenze attuali. L’atrofia dello spazio pubblico nasce forse anche dall’occultazione del senso dei luoghi [12], anzi dovremmo parlare piuttosto di occultazione dello spazio di appartenenza, trasformazione mascherata dello spazio dello scambio – la piazza del mercato – in spazio del controllo e della soggezione di soggetti che – per definizione – hanno potere d’acquisto e denaro da spendere per soddisfare i loro desideri. Questa trasformazione prosegue oggi attraverso la diversificazione delle forme architettoniche. Sempre più i promotori dei mega centri commerciali adottano strategie simili a quelle che sottendono il finanziamento di grandi operazioni immobiliari, facendo capo alle grandi firme dell’architettura. Alla periferia di Berna, la capitale della Confederazione elvetica, a cavallo dell’autostrada che conduce verso il Lago Lemano, nell’autunno del 2008 è stato inaugurato il West Side, un grande complesso commerciale e del tempo libero, dotato di centri wellness, spa, centro congressi, sale da cinema e da ballo, alberghi di prima categoria. Ideato dall’architetto Daniel Libeskind e progettato come qualcosa di assolutamente nuovo, con forme angolose e audaci, per il suo ideatore non è soltanto un tempio dello scambio commerciale. "Non ritengo si tratti di una cattedrale del denaro, ma di una cattedrale per le persone. Ogni cattedrale costa d'altronde parecchi soldi: dovremmo pertanto evitare di separare così marcatamente il mondo materiale e quello spirituale [13]". Tutte le nuove e più recenti grandi realizzazioni urbane, degli architetti più in vista, sono lì per stupire l’osservatore, per essere segno riconoscibile e quindi far parlare della loro esistenza, segno apparentemente non standardizzato nello skyline della città. Ad esempio, in occasione delle olimpiadi di Pechino nel 2008 abbiamo potuto apprezzare forme mai viste, come lo stadio a nido d’uccello di Herzog & De Mauron, o la torre trapezoidale di Rem Koolhaas e Ole Sheeren (sono soltanto esempi tra tanti altri) che sfruttano appieno le innovazioni tecnologiche per creare forme sempre più stravaganti e stupefacenti. E’ questo il destino dello spazio pubblico urbano? A prima vista, si direbbe di sì, o meglio si direbbe che questo fenomeno di estetizzazione degli eventi della globalizzazione, contemporaneo allo svuotamento dei significati e dei contenuti degli “altri” spazi della città sia un fatto ormai assodato. Quindi non ci dobbiamo stupire se, una volta tolta la patina delle forme stravaganti, "(…) la globalizzazione rende le città sempre più simili: dappertutto abbiamo gli stessi quartieri d’affari, gli stessi centri commerciali, gli stessi alberghi di lusso, gli stessi aeroporti, quali che siano le star dell’architettura che li firmano”[14].
Siamo al capolinea dello spazio pubblico? Non credo e non è questo il punto. Ci sono esempi di spazi pubblici formali recenti particolarmente riusciti [15]. Ma sono esempi puntuali, che possono offrire solo città globali, che, pur volendo diffondere – nelle pratiche del recupero del vecchio spazio pubblico della città fordista – non potranno, da soli, offrire una risposta valida alle sfide dell’urbanizzazione contemporanea. Il problema vero sembra piuttosto essere quello delle periferie, in senso stretto e in senso figurato. Che ne è, di fatto, delle immense “città diffuse”, come sulla pianura padana, nella regione parigina, nella megalopoli della costa est degli Stati Uniti e di quella della West Coast, o ancora in quelle delle megacittà latinoamericane, indiane o africane? Possiamo anche partire dallo stato in cui versa lo spazio pubblico nelle periferie delle piccole città del Cantone Ticino [16], forse uno specchio in miniatura di quanto è realmente successo in termini di trasformazione edilizia del territorio nelle periferie di gran parte del Nord Italia. Di fatto questo spazio pubblico, quello delle molte periferie della villettopoli padana, molto spesso diventa spazio funzionale alla circolazione automobilistica – al servizio esclusivo dell’auto che per definizione è spazio individuale, privato. Questo spazio urbano della periferia padana, di cui si parlerà più in là, è spesso più povero di quello di molti quartieri abitativi periferici di città appena situate al di là delle Alpi (come Lione, Ginevra, Zurigo, Basilea). Purtroppo però talvolta lo è anche rispetto ai quartieri popolari di molte città dell’America del Sud o dell’Africa, non soltanto di contenuti ma anche in quanto a speranza di possibilità di incontro.

L’esplosione urbana e la megacittà



La seconda constatazione da cui era partita questa riflessione era che la scomparsa dello spazio pubblico della città è sincronica all’esplosione dell’urbanizzazione, al più rapido processo di inurbamento della popolazione che l’umanità abbia mai conosciuto. Nel 1900 soltanto il 10% della popolazione mondiale abitava nelle città; secondo le statistiche dell’ONU [17] nel 2007 questo tasso ha raggiunto il 50% (3 miliardi e trecento milioni di persone) e nel 2050 si calcola che saranno il 75% di una popolazione mondiale stimata a 9 miliardi. Il problema odierno del gigantismo, delle megacittà (ci sono oggi nel mondo oltre 400 città con più di un milione di abitanti, di cui una ventina con una popolazione di oltre 10 milioni di abitanti) [18] continuerà ad essere in cima all’agenda delle politiche pubbliche e della ricerca per alcune generazioni ancora [19]. Beninteso, anche nelle città del Sud, in America Latina, in Asia e più di recente in Africa, l’atrofia dello spazio pubblico e la sua trasformazione in spazio del consumo è avvenuta con forme diverse, altrettanto visibili e macroscopiche. Vittima della crescita incontrollata, nella maggior parte di esse lo spazio pubblico non colonizzato dal consumo e dal controllo si riduce ancor più a poca cosa. Nei quartieri popolari si limita a uno spiazzo precario per giocare, un mercato rionale. Spesso, oltre al marciapiede, è però completamente assente perché non c’è più, è fisicamente scomparso a profitto di operazioni immobiliari. Lo spazio pubblico formale, se va male, per molti giovani si limita al commissariato o alla prigione.
La crescita esponenziale delle città ha posto in primo piano (reso più visibile) il problema dell’abitato precario delle grandi città, delle favelas, villas miserias, bidonvilles, slums, baraccopoli, che gli architetti chiamano spazi di urbanizzazione spontanea, e che già oggi costituiscono il 35-40% delle città dei paesi in via di sviluppo (il 60-70% nell’Africa sub-sahariana). Secondo la valutazione molto prudente di ONU-Habitat, oltre un miliardo di persone nel 2005 abiterebbero nelle bidonvilles [20]. Anche se si tratta di un fenomeno non nuovo, già ampiamente studiato dai sociologi e dai geografi negli anni ’70 [21], lo spazio degli slum non ha cessato di allargarsi e apparentemente di preoccupare politici e ricercatori. Senza soluzioni, apparentemente. Di fatto ha assunto un valore di simbolo della miseria urbana, secondo una visione apocalittica, anticipatrice di uno scenario ineluttabile di vera e propria guerra tra il capitale globalizzato e i poveri criminalizzati delle grandi città del mondo. Detto in maniera molto semplificata, la visione che presenta Mike Davis nel suo The Planet of Slums è forse eccessivamente incentrata sullo scontro [22]. Questa rappresentazione dei rapporti sociali in cui lo spazio pubblico è soltanto il teatro della violenza, della prevaricazione del povero sull’ancor più povero, sembra offuscare la speranza di milioni di persone che vivono e vivranno in contesti di slum. Che ne è, infatti, dell’uso e della produzione di spazio pubblico negli slums? La visione di un futuro apocalittico da distopia urbana non ci lascia intravedere nulla. Al contrario il suo allarmismo sembra quasi indurre a ritenere che le urbanizzazioni spontanee dovrebbero essere tutte rase al suolo per far posto all’abitato formale, alloggi sociali e case popolari. Forse non è così semplice. Ci sono casi in cui la famiglia della favela o della villa si rifiuta di traslocare per una casa migliore, più sicura, più salubre, più bella, ma non più nel quartiere.

Spazio formale e territorio quotidiano


Già qualche anno fa vari studi mostravano che lo spazio pubblico tende a ricrearsi anche in assenza di un supporto architettonico stabile, non più attraverso l’espressione di forme fisiche, ma attraverso relazioni interpersonali, forme di solidarietà di vicinato, percorsi alternativi e immateriali di vita in comune [23], insomma come territorio di appartenenza. Che ne è in questi luoghi, al di là delle descrizioni catastrofiche, dell’altra faccia dello spazio pubblico urbano? È questo un argomento pertinente per cercare di capire la sua nuova dimensione globale, o forse anche il suo stesso futuro?

Le architetture dello spazio delle cerimonie collettive riempivano di senso la città medievale: lo spazio pubblico era uno spazio trascendentale, idealmente di relazione con la divinità. Con la caduta dell’
ancien régime, nelle città europee e americane del nord e del sud, il significato del fare comunità (fare città) fu assunto dagli ideali di libertà e di uguaglianza e poi dall’idea di nazione, che diede un senso non soltanto formale ai nuovi parchi e giardini pubblici. Lo spazio pubblico del fordismo fu un adattamento del contenuto borghese alla nuova condizione urbana della città industriale, anche a forza di sottoscrizioni popolari fu quello delle conquiste del welfare e del dopolavoro, ma anche della motorizzazione e del turismo di massa. La piazza divenne lo spazio della rivendicazione operaia e studentesca. Il 68 fu un movimento tipicamente urbano, illusione di grandi cambiamenti e realmente rappresentativo di grandi disagi. Le lotte dei giovani nordamericani in quella stessa epoca, furono pure movimenti urbani, all’origine della creazione di altri spazi pubblici, come quelli che sfociarono sulla rivendicazione di centri sociali “autogestiti e proletari” [24]. Questi movimenti crearono anche momentaneamente nuovi contenuti per gli spazi pubblici della città borghese, ormai in pieno disfacimento fisico e spirituale. Ma fu un momento di appena una generazione e poi vennero i tempi delle aperture, l’annuncio della globalizzazione con la caduta dei muri, che significarono, passata l’euforia, caduta degli ideali, o meglio svuotamento degli ideali che avevano caratterizzato i 30 gloriosi. L’ideologia neoliberale, partita da lontano, divenne la rappresentazione egemone, concreta, basata sull’idea del successo e dell’individuo come consumatore di “prodotti di successo”, divenne la base della nuova gestione della città, la televisione e il football misero d’accordo tutti, o quasi. Lo spazio pubblico urbano, ormai vuoto di significato, diventò il bottino da spartire per le nuove realizzazioni nei centri delle grandi città. Negli anni ’90 fu un’occasione per il suo ridisegno in termini di spazio d’incontro, ma a fronte di pochi casi coronati da successo, anche in termini di frequentazione, molti altri furono operazioni fallite vittime dell’avidità e della meschinità, e questo soprattutto nelle città minori. Negli Stati Uniti i centri urbani delle piccole città si spopolarono rapidamente, mentre fiorirono i centri commerciali periferici accessibili unicamente con l’auto. Ma anche in Europa, con la fuoriuscita della popolazione gli antichi centri deperirono e nel migliore dei casi si trasformarono in vuoto museo, pur bello, ma con grandi spese per le municipalità e poco o nessun guadagno per il cittadino. O meglio il cittadino dei quartieri residenziali si ritrovò spesso a vivere in uno spazio pubblico al servizio quasi esclusivo dell’automobile, uno spazio funzionale di attraversamento.
All’altro capo del mondo, da alcuni decenni, ricerche e inchieste negli spazi urbani auto-costruiti, “spontanei”, non autorizzati e non pianificati delle grandi città, mostrano che con la precarizzazione dell’abitato a chi viene escluso dal mercato formale dell’alloggio, appaiono a volte “altri” concetti possibili di “spazio pubblico”, che apparentemente prendono il posto dello spazio formale delle piazze, dei cinema o dei caffè. Lo spazio pubblico si ricrea come spazio di rappresentazione collettiva, più facilmente quando c’è una società civile[25] che è in grado di costituire una reale alternativa ai valori e alle rappresentazioni dominanti. La nostra tesi è che lo spazio pubblico si ricrea attraverso strategie di appropriazione simbolica, ad esempio il quartiere e le sue rappresentazioni per i giovani e gli adolescenti, come testimoniano alcune inchieste fatte già alcuni anni fa nelle città satelliti del Gran Buenos Aires [26] e come si vedrà, nel caso della Villa 31, un bidonville situato in uno dei centri nevralgici della capitale argentina. Di questo spazio pubblico altro rispetto ai canoni della definizione normale di spazio pubblico, c’è pochissima conoscenza, c’è pochissima informazione; eppure è (e sarà) il luogo di vita di centinaia di milioni di persone. Non importa se questo luogo è sordido, brutto o sporco, l’importante è che sia il “nostro” spazio, che ci differenzi dal “loro”, che abitano dall’altro lato della ferrovia.
Oggi i giovani riproducono questo concetto di spazio pubblico (“tribale”?) sulla rete, su facebook – un portale che nell’aprile del 2009 ha superato i 200 milioni di utenti – ove ognuno si presenta liberamente, come in piazza, anzi meglio. Su questi portali sociali e conviviali ci sarebbe molto da dire, anche in termini di poste in gioco del potere [27], tuttavia un luogo, anche virtuale, per essere “spazio pubblico” deve diventare in qualche modo luogo fatto proprio dalla comunità, delimitato da confini riconoscibili ma sempre più spesso non materiali. Torniamo quindi all’idea iniziale dello spazio pubblico contemporaneo: quella di essere uno spazio di rappresentazione, da un lato con le sue architetture e le sue immagini della città, e dall’altro quella di essere uno spazio di appartenenza con le sue maglie, i suoi nodi, le sue reti, i suoi codici di comportamento. Lo spazio pubblico sembra continuamente cambiare faccia, da spazio di rappresentazione oggi diventa territorio di appartenenza. E non è detto che questo spazio di appartenenza di oggi non diventi domani, di nuovo, spazio di rappresentazione. Ora la questione è quella di sapere se questo tipo “immateriale” di spazio che attribuisce senso all’espressione spazio pubblico, è un risultato del processo contemporaneo di urbanizzazione, con le disfunzioni dovute alla globalizzazione della città, oppure se non è sempre esistito come spazio altro, in principio non separabile (poiché non visibile) dalle forme dell’architettura della città. Se rispondiamo a questa domanda con l’affermativa, allora dobbiamo ammettere che in gran parte la nozione di spazio pubblico ha confuso nel passato due dimensioni di cui si parlava all’inizio: la dimensione morfologica (in generale uno spazio fisico disegnato) e quella dello spazio relazionale. L’intuizione di questo dualismo non è nuova, anzi esiste già da lungo tempo nelle scienze sociali. Per usare le parole di Henri Lefebvre [28], lo spazio pubblico, è allo stesso tempo rappresentazione dello spazio e spazio di rappresentazione. Gli spazi pubblici di una città sono certamente rappresentazioni (egemoni), legate ai rapporti di potere, all’ordine che essi impongono e, da qui, a delle conoscenze, a dei segni e a dei codici che ne permettono l’interpretazione. Lo spazio pubblico in questo caso è quello del principe, del municipio, ma poi è soprattutto quello degli esperti, dei pianificatori, degli urbanisti, dei tecnocrati al servizio del potere, che lo ritagliano e lo misurano in funzione degli obiettivi politici del momento. Questo spazio pubblico rappresenta simbolicamente i rapporti sociali dominanti in un certo periodo storico. Ma lo spazio pubblico è anche spazio di rappresentazione, nel senso di Lefebvre, che esprime le immagini e i percorsi alternativi dello spazio sociale, attraverso dei simbolismi complessi, legati al lato clandestino e sotterraneo della vita sociale, ma anche all’arte, che “potrebbe eventualmente definirsi non come codice dello spazio ma come codice degli spazi di rappresentazione”.[29] E’ questo lo spazio vissuto attraverso le immagini e i simboli che l’accompagnano, attraverso gli abitanti, o gli utenti, ma anche di molti artisti e filosofi o scrittori. E’ lo spazio che l’immaginazione tenta di riappropriarsi e di modificare con strumenti simbolici come l’arte o la scienza [30].
Cambia la forma, cambia l’architettura (o l’architettura sparisce come disegno del luogo) ma il meccanismo di appropriazione simbolica sembra analogo a quello della piazza o del monumento che sono manifestazioni concrete dei poteri dominanti. La cultura della strada, i movimenti sociali e i siti internet “comunitari” sono quindi anche spazio pubblico poiché assolvono il ruolo di spazio relazionale. Ripeto, questo spazio relazionale, quello che gli anglofoni chiamano Public Realm, è uno spazio vissuto dai soggetti [31] come il territorio della comunità, che si rappresenta come tale in una società più vasta. Perciò mi sono chiesto se non era possibile riconsiderare il tema attraverso una teoria della territorialità della città. Questo approccio in geografia e nelle scienze sociali risale agli anni ’70 e ’80 [32] e oggi la parola stessa è entrata nel senso comune degli studi sull’organizzazione del territorio [33]. L’approccio della territorialità conduce però a non eludere il tema centrale del potere che è consustanziale ad ogni relazione umana. Così, ad esempio, teorie della territorialità informano e irrigano le geografie del conflitto che descrivono l’irruzione della violenza nella sfera dell’abitare, la rottura delle relazioni di vicinato e l’esilio forzato, come è il caso per milioni di contadini nel corso del conflitto armato in Colombia [34]. L’origine di questa riflessione sul potere risale però agli studi di Michel Foucault [35], ripresi negli anni seguenti dai geografi, tra altri alla fine degli anni ’70 da Claude Raffestin. Foucault era partito dalle molte forme di repressione della sessualità (o meglio delle sue manifestazioni) nella società occidentale dalla fine del XVII secolo. Dall’ipotesi repressiva sul sesso e sulla sessualità Foucault era passato a una discussione critica dei meccanismi del potere, che spiegava anche altre sue manifestazioni nella società borghese. Di fatto nell’opera di Foucault il discorso sul potere è una sorta di teoria della relazione che si sviluppa per due decenni. Questa riflessione ha rappresentato una risorsa molto ricca per la geografia politica; su questa base Claude Raffestin ha costruito una teoria della territorialità [36] che ho cercato di utilizzare e reinterpretare in queste pagine. Pur incompiuta in più punti, essa rappresenta – quasi paradossalmente per l’epoca incerta che stiamo vivendo – un bagaglio concettuale ancora utile per una analisi geografico – politica dello spazio pubblico e come si vedrà, anche per lo spazio pubblico altro, alternativo o clandestino.
C’è da dire che sorprendentemente, nonostante alcuni appelli [37], la riflessione sulla territorialità non è stata ancora realmente sviluppata per l’analisi e la lettura della città contemporanea. La letteratura, a una prima superficiale indagine, se escludiamo i lavori dedicati alle descrizioni di distopie (catastrofi, guerra), del fenomeno slum, dell’abitato informale e delle reti di solidarietà, è piuttosto scarsa. Come si vedrà, tuttavia, da quando esiste la città lo spazio pubblico non ha mai smesso di rappresentare uno strumento, il principale, per il suo stesso governo. Approfondire oggi il tema dello spazio pubblico urbano come posta in gioco del potere, forse permette di fare un passo avanti.

Strumenti per una deostruzione dello spazio pubblico urbano


Per cercare di svelare le relazioni che intrattengono le due facce del concetto di spazio pubblico urbano forse si può ricorrere alla tecnica della decostruzione. [38] Per dare un senso a questa parola possiamo considerare la strategia del geografo britannico Brian Harley che in un magistrale saggio[39] dichiarò di voler decostruire la mappa – in quanto rappresentazione del mondo – alfine di “rompere il legame presunto tra la realtà e la rappresentazione che ha dominato il pensiero cartografico (…)"; per andare quindi oltre l’apparente ruolo funzionale della mappa, quale immagine “neutra” o “normale” del mondo [40]. Harley non fu l’unico a smontare il processo di identificazione simbolica tra la mappa e lo stato, la mappa e il potere in generale, ma se partiamo dal principio del dualismo della nozione di spazio pubblico, ovvero che si tratta sia di spazio fisico sia di spazio relazionale, ma in entrambi i casi anche di spazio di rappresentazione, allora possiamo tentare un percorso simile a quello di Harley per la mappa, cercando di evincere i significati (e i valori) nascosti sotto le spoglie degli spazi pubblici delle città di ieri e di oggi. Questo forse ci aiuterà a capire perché di recente lo spazio pubblico si atrofizza così facilmente sotto la pressione delle relazioni mercantili. E forse anche perché le nostre periferie oggi sono così povere di spazi pubblici.

Utopia e eterotopia della spazio pubblico


Idealmente lo spazio pubblico ha principalmente la funzione di permettere alla co-presenza di distribuire i suoi benefici, ossia facilitare l’incontro e la serendipità. Perciò lo spazio pubblico è una forma urbana destinata ad essere gradevole e accogliente, nonostante il fatto che è sempre rappresentazione (egemone o alternativa) della città, ovvero iscrizione nello spazio urbano di visioni del mondo che sono il risultato dei rapporti di potere. Jacques Lévy ha scritto di recente che (…) "Public space is ‘a reasonable utopia’ because there is nothing impossible in its principle, except for the risk that some of the population might refuse co-presence with others. A public space is a fundamental and fragile expression of urban society. It is a place where what is called civility is practised [41]. Certo, ma si tratta soltanto di spazi formali, definiti da forme architetturali visibili? In questo caso la dimensione relazionale dello spazio pubblico, quella che riguarda il potere, verrebbe a coincidere, a confondersi con la rappresentazione del vivere in comune, definita dai codici di comportamento formali (normali) scritti o non scritti delle istituzioni della città. Questo vale certamente per quelle regioni aperte che sono le piazze, i cinema, i caffè, gli alberghi, le spiagge (ecc.) e le regioni di passaggio, i treni, le stazioni, gli aerei e gli aeroporti. Lo spazio pubblico relazionale, quello per intenderci della cultura della strada, è invece uno spazio altro, a volte nascosto, non visibile poiché non disegnato, non solido ma frammentato e cangiante a dipendenza dalle relazioni che lo creano. In alcuni casi è uno spazio altro, molto vicino a ciò che Michel Foucault chiamò eterotopia [42]. Con questo termine egli immaginava uno spazio solido, reale, come ad esempio il cimitero, la capanna in fondo al giardino, la casa chiusa, la missione gesuitica, sorte di contro-spazi all’interno dei quali si elaboravano individualmente o collettivamente altre pratiche sociali e spaziali, rispetto alla normalità dello spazio (pubblico) delle regioni aperte e di passaggio. Ma non c’è ragione che l’eterotopia non si produca anche attraverso la territorialità, ovvero attraverso le relazioni che definiscono l’uso e la condivisione dello spazio. Si può ipotizzare, a questo punto, che la territorialità distrutta da una distopia – come la guerra, il genocidio, la repressione o l’odierna precarizzazione generalizzata del lavoro – tende a produrre spazio altro, eterotopia, sorte d’utopie réalisée per usare ancora le parole di Michel Foucault. Di principio questo spazio altro non è visibile agli occhi del potere: le reti di partigiani nell’Europa occupata o le comunità di quartiere del basismo al tempo delle dittature latinoamericane sono esempi storici di questi spazi altri, di queste eterotopie dello spazio pubblico. Perché dunque non potrebbe essere così anche negli spazi contemporanei delle nostre città o dell’urbanizzazione informale nei centri e nelle sconfinate periferie delle megacittà latinoamericane?

Relazione e territorialità


La geografia del potere - Lo spazio pubblico come territorio è un argomento che riguarda la geografia politica o geografia del potere. La parola magica è “relazione”. Per una società o una comunità, la territorialità si costituisce attraverso le relazioni sociali che sono spazialmente rilevanti, che sono in qualche modo suscitate da un obiettivo, ad esempio nella vita quotidiana di ogni persona, come abitare, muoversi, lavorare in luoghi diversi della città. Studiare le relazioni che conducono alla costruzione del territorio, quindi, non significa occuparsi soltanto delle cosiddette relazioni spaziali (come ad esempio la concentrazione o la diffusione di un fenomeno, l’accessibilità o la distanza dal centro, la velocità di spostamento, ecc.), significa piuttosto interessarsi alle poste in gioco degli attori e quindi ai loro obiettivi e alle loro strategie in una determinata situazione. Entrare in competizione per lo spazio significa esercitare il potere in funzione dell’autonomia di cui si dispone. Non si tratta però qui di discutere del potere, in generale, ma del potere insito in ogni relazione destinata all’appropriazione – anche simbolica e temporanea – o al controllo dello spazio. In questo caso pretendere che il potere è soltanto lo Stato (e le istituzioni che emana) vuol dire nascondere un altro tipo di “potere”, forse con la p minuscola, ma che è presente in ogni relazione tra attori (persone o organizzazioni che hanno un obiettivo). A maggior ragione se la relazione ha come posta in gioco l’appropriazione e l’uso dello spazio, come nel caso dell’abitazione, o negli spostamenti quotidiani nelle vie e nelle piazze, nelle stazioni della metropolitana, nei treni (ecc.) affrontiamo tutti i giorni questo tipo di competizione per lo spazio, anche se nella maggior parte dei casi non ce ne accorgiamo e lo accettiamo come la normalità del vivere urbano. Il potere con la p minuscola, affermava Foucault, è ben più pericoloso di quell’altro (quello con la P maiuscola), poiché mentre quest’ultimo si vede (ad esempio nelle architetture degli spazi pubblici) quell’altro si manifesta invisibilmente in ogni relazione umana, rinasce dopo ogni apparente sconfitta o vittoria nel campo dell’agire [43].
Ma da cosa dipende l’esercizio del potere? Partendo da queste proposte, Raffestin suggeriva di leggere il potere come un mix di energia e informazione presente in ogni relazione. In una situazione ideale per esercitare il potere ogni attore doveva di fatto disporre di un certo grado di autonomia, che dipendeva dalla qualità e dalla quantità di energia e di informazione disponibile per attuare le strategie che lo dovevano portare alla realizzazione dei suoi obiettivi [44]. Oggi la società è ben diversa, siamo entrati in un era incerta, che taluni chiamano seconda modernità o modernità liquida: le rappresentazioni del potere sono cambiate, anzi sono in qualche modo scomparse dallo spazio pubblico, ma il principio è valido ancora oggi. Così, ancora oggi, un partito o una comunità di quartiere nel sostenere o avversare decisioni sul come e il dove realizzare un nuovi spazi urbani, dovrà attivare delle strategie, basate sulla consapevolezza delle poste in gioco e quindi su obiettivi da raggiungere. A dipendenza delle risorse di cui dispone – la sua strategia potrà essere articolata su un mix di energia e informazione, ad esempio bilanciando l’uso della forza (con manifestazioni di piazza) con quello della persuasione basata sul negoziato di soluzioni innovative o alternative [45].
Maglie Nodi, Reti - Per esercitare il potere, quindi per procedere alla delimitazione e alla partizione dello spazio, si deve disporre, prima, di una rappresentazione (di una descrizione, un disegno, una mappa dello spazio in oggetto). Dai tempi di Anassimandro di Mileto (vissuto tra il sesto e il quinto secolo a.c.) e dalla sua prima mappa circolare, la carta geografica è diventata il modello del mondo. E’ un modello semplificato – anche nelle sue più recenti apparenze di Google Earth – ma necessario alla mediazione simbolica tra l’uomo (o il gruppo) e il suo territorio [46]. Il territorio non esiste senza una rappresentazione che lo precede e non esiste una territorialità senza la dimensione simbolica di una rappresentazione condivisa. Ora, ogni rappresentazione figurativa, quindi anche la carta geografica, è prodotta partendo dai tre elementi basilari del piano euclideo: punto, linea e superficie. Osserviamo una mappa qualsiasi, ad esempio una delle carte murali che nel passato addobbavano le aule delle scuole elementari. Possiamo così facilmente osservare che gli elementi basilari della rappresentazione del territorio sono riconducibili a questa triade, attraverso la raffigurazione dei nodi, delle reti e delle maglie del potere, in questo caso emanazione dello Stato e dei suoi ordinamenti amministrativi. Punti per rappresentare le città (i nodi dove convergono flussi di persone, energia e informazione), linee per disegnare le vie di comunicazione (le reti di strade, di vie navigabili, di ferrovie…), superfici per rappresentare le diverse partizioni dello spazio, le maglie (come Stati, regioni, province, dipartimenti, comuni). Maglie, nodi e reti si strutturano in modo molto diverso da una società all’altra, ma ci sono differenze anche tra una logica e l’altra. Ad esempio i territori politici non corrispondono necessariamente ai territori dell’economia, detto in altre parole la logica economica provoca nodi, maglie e reti che possono essere diversi, anche molto diversi, dal sistema maglie, nodi, reti della politica [47]. Anche lo spazio pubblico come spazio di appartenenza si costruisce attraverso nodi, maglie e reti, frutto delle relazioni tra gli abitanti e gli utenti del quartiere o della città.
Attori – strategie – mediatori - Per definire la relazione come ancora suggerisce Raffestin, possiamo chiamare in causa tre componenti (o elementi costitutivi) di cui si è già detto molto. Gli attori della relazione sono soggetti portatori di un progetto, ossia hanno delle finalità, degli scopi da raggiungere tramite la relazione. Nella geografia politica di fine Ottocento (quella di Friedrich Ratzel, per intenderci), l’attore privilegiato (l’unico in pratica) era lo Stato. Oggi sappiamo che ogni organizzazione che ha delle finalità in qualche modo “spaziali” può essere rappresentata come attore della relazione che sta alla base di una specifica territorialità. La realizzazione degli obiettivi presuppone delle strategie, ovvero un modo di combinare una serie di elementi da mettere in azione per raggiungere un determinato obiettivo. Possiamo considerare le strategie delle organizzazioni multinazionali per la conquista di un determinato mercato con un determinato prodotto o servizio. Anche per scegliere la casa, una famiglia può optare per diverse strategie: abitare in centro o in periferia implicherà costi e benefici diversi per lavoro, servizi, educazione, trasporti, ecc. Le strategie sono soprattutto il modo di articolare i mediatori, ovvero energia e informazione per raggiungere la finalità (gli obiettivi) della relazione. I mediatori della relazione comprendono quindi tutto ciò che materialmente permette la relazione. Ad esempio i codici della comunicazione, come il linguaggio, e poi le strutture normative, come le leggi e le convenzioni che definiscono e inquadrano le relazioni sociali e i codici di comportamento del vivere urbano. Storicamente, il principale mediatore materiale tra l’uomo e l’ambiente è il lavoro ovvero l’energia e l’informazione necessaria a trasformare la materia, sia essa anche virtuale, sottoforma di conoscenza. Qui potremmo aprire un capitolo enorme [48] , poiché soltanto per il lavoro abbiamo una infinità di varianti, di specializzazioni, di tecnologie e di modi di produzione, e poi forme di garanzie o oggi di precarizzazione del lavoro. Per il momento però, accontentiamoci di parlare dei mediatori della relazione come elementi (molto diversi tra loro) che hanno in comune il fatto di presentarsi sottoforma di energia e di informazione.
Informazione funzionale e informazione regolatrice - Come definiamo l’energia? Possiamo dire che si tratta di un “potenziale che consente lo spostamento e /o la modificazione della materia”[49]. Al limite possiamo assimilare la materia all’energia in qualche modo condensata. Attenzione, stiamo facendo una generalizzazione importante: il carbone può liberare energia, mentre l’acciaio è in qualche modo dell’energia condensata che non può più essere utilizzata. Questo tipo di energia, generalmente si chiama “energia grigia”, contenuta in una data materia (quella ad esempio insita negli edifici della città) ma che non può più essere liberata. Così scambiare del carbone o del petrolio contro del grano, del cemento o dell’acciaio vuol dire scambiare dei flussi di energia sotto diverse forme. E cos’è l’informazione? L’informazione è invece la forma o l’ordine insito e decodificabile in ogni materia o energia (ibid.). L’informazione guida l’uso e il consumo dell’energia e permette nel contempo la riproduzione del sistema territoriale. L’informazione si costituisce e si trasmette tramite dei messaggi, dei messaggi simbolici, codificati dai linguaggi, i linguaggi della scienza e della tecnica ma anche tutti gli altri linguaggi. E’ chiaro che nella relazione chi detiene informazioni importanti, che altri non detengono, possiede un vantaggio, maggiore autonomia per raggiungere gli obiettivi. Qui dobbiamo tornare all’esempio del lavoro, in generale, quale mediatore principale della relazione tra l’uomo e l’ambiente terrestre, quindi, al centro della costruzione del territorio di una società o di una collettività. Si è detto prima che il lavoro può essere visto come un mix di una certa quantità di energia e di informazione. Ma possiamo anche definirlo attraverso delle pratiche e delle conoscenze socialmente riconosciute, che per evolvere devono continuamente nutrirsi di energia e di informazione. Le forme del lavoro – quindi delle pratiche e delle conoscenze che lo sorreggono – sono molto diverse in ogni epoca. Le relazioni che inquadrano il lavoro nelle società industriali – come ad esempio convenzioni tra autorità, sindacati e padronato, da cui dipendono i livelli salariali, le indennità di disoccupazione, ecc. – non sono affatto simili a quelle delle società medievali, dove il lavoro era inquadrato nel sistema delle corporazioni. Nemmeno il lavoro nell’epoca della globalizzazione è del tutto confrontabile con i precedenti. Ma in ogni epoca, affinché ci sia lavoro, l’informazione circola nei codici, nelle procedure e nelle transazioni economiche. E ovunque c’è lavoro c’è anche uso (e consumo) di energia, oggi più spesso sottoforma di combustione di idrocarburi fossili, ma forse domani maggiormente con energia da fonti rinnovabili, come l’acqua, il vento, il sole… Per trasformare la materia l’uomo crea costantemente dell’informazione (ad esempio, attraverso i progressi tecnici e scientifici) per poi applicarla alla produzione di apparecchi o di nuove sostanze necessarie a produrre altre materie, apparecchi, macchine.
Il valore dell’informazione varia moltissimo a seconda dei casi. Così ciò che troviamo sui giornali su fatti o avvenimenti ci da una rappresentazione immediata, ad esempio con articoli di approfondimento, come nel caso del crack finanziario globale dell’ottobre del 2008. Tutti i grandi media hanno tentato di approfondire il tema, con inserti speciali, dibattiti tra tecnici, confronti storici con la crisi del 1929, ecc. In realtà per giorni e giorni sono state ripetute più o meno le stesse cose, per finire le notizie di interventi massicci delle banche centrali, per centinaia di miliardi di dollari, cosa a dire il vero mai vista, assolutamente impensabile soltanto qualche mese prima, hanno suscitato quasi indifferenza o rifiuto del grande pubblico. I grandi media, in poche settimane hanno così portato in secondo piano le notizie sui piani di intervento dei governi per salvare i sistemi bancari nazionali. Cosa ci dice questo esempio? Ai non iniziati del sistema finanziario globale (quindi a quasi tutti), l’informazione “pubblica” ha permesso di capire soltanto la superficie delle cose. Ci dice anche che l’informazione, o almeno questo tipo di informazione, si degrada molto rapidamente con il tempo. La questione è invece molto diversa, quando un ricercatore scopre la possibilità di modificare un sistema attraverso un’innovazione, oppure osserva e descrive nuove pratiche o individua fenomeni sino ad ora non considerati, tutte cose che immediatamente creano nuova informazione circolante in una comunità scientifica. E’ possibile che dopo una serie di valutazioni e di test quella nuova informazione sia di primaria importanza per la riproduzione del sistema stesso (come ad esempio per un vaccino, o un organismo in grado di combattere un parassita, uno studio su una catastrofe, ecc.). Per tutti i sistemi, dai sistemi fisici, biologici, ai sistemi finanziari, a quelli politici c’è dunque un’informazione che resta alla superficie dei problemi e un’informazione che permette invece di capire (o di cominciare a capire) questi stessi problemi. Sono due forme di informazione che possiamo chiamare informazione funzionale e informazione regolatrice [50] . Da un lato c’è l’informazione funzionale, ovvero tutto ciò che in qualche modo fa funzionare un sistema territoriale. Essa interessa ad esempio la messa in valore delle risorse e include i sistemi normativi, le conoscenze tecniche e i referenti culturali di una data società. E’ l’informazione “normale”, che permette al sistema di funzionare. D’altro lato c’è un’informazione regolatrice, che concerne invece la perennità del sistema. E’ composta di valori, di codici, di reti sociali, della memoria delle società, ma anche della trasposizione analogica di eventi già avvenuti altrove o di conoscenze acquisite su temi specifici (studi sul futuro del territorio, strumenti di monitoraggio). Si può spiegare meglio con un esempio recente. New Orleans nel 2005 non è stata distrutta dall’uragano Katrina. E’ stata inondata e devastata dall’acqua a causa della rottura delle dighe che la proteggevano e della graduale scomparsa della vegetazione presente sul litorale (con la progressiva cementificazione del fronte marino). Da anni si sapeva che le dighe non avrebbero tenuto una piena centenaria, e si sapeva anche che il litorale non sarebbe stato in grado di resistere ad un forte uragano, poiché non vi era più lo strato di mangrovie e ambienti umidi in grado di assorbirne l’impatto. Non fu fatto nulla o quasi per prevenire ciò che è avvenuto. Il disastro di New Orleans si può allora spiegare per il fatto che non fu considerata l’informazione regolatrice: dei lavori di ricostruzione delle dighe e di parziale ricostituzione delle zone umide, tutto sommato abbastanza semplici per una società evoluta come quella degli Stati Uniti, avrebbero permesso di evitarlo. Ma non fu fatto [51] . Chi produce l’informazione regolatrice? Oggi molti sistemi urbani, regioni, città si sono dotati di sistemi di monitoraggio delle politiche ambientali e territoriali. Questi sistemi producono informazione regolatrice, attraverso indicatori e valutazioni dei cambiamenti recenti dei fenomeni spaziali. Non sempre però sono accolti dai politici, come ci insegna il caso di New Orleans. L’informazione regolatrice, secondo le circostanze, può però rimettere in causa l’ordine prestabilito, sia perché è portatrice di innovazione, sia perché apre nuove prospettive. Lo sviluppo della ricerca sull’effetto serra e il cambiamento climatico (a giudicare dai risultati del Gruppo intergovernativo sull’ambiente) mostra che il mondo corre verso una catastrofe a tempo. Da anni sappiamo che gli Stati devono allestire delle politiche per ridurre le emissioni di CO2, ma, nonostante i discorsi e gli accordi internazionali, tra il 2000 e il 2008 le emissioni di gas e la temperatura media della Terra serra sono aumentate oltre le previsioni dei sofisticati modelli dei climatologi. Si possono trovare altri esempi, ma senza produzione e uso dell’informazione regolatrice la società è condannata a termine all’auto-distruzione.

De-territorializzazione e ri-territorializzazione (il processo “de-ri”)


Ora proprio il ruolo dell’informazione costituisce la principale leva dei cambiamenti sociali e quindi anche del cambiamento delle forme della territorialità. Se osserviamo qualsiasi città o regione contemporanea, possiamo rilevare le tracce recenti di questi cambiamenti. Sono le tracce del processo di territorrializzazione, che di fatto è sempre un processo simultaneo di de-territorrializzazione e di ri-territorializzazione, o processo de-ri. Quando intervengono cambiamenti forti, allora assistiamo a un processo de-ri. Storicamente, forse, il fatto più marcante fu l’industrializzazione, l’esodo rurale e la fine delle “società tradizionali” con la concentrazione nelle città di grandi masse di popolazione. Ma anche il cambiamento dal fordismo al post-fordismo fu un processo de-ri: il declino di un modo di produrre localmente circoscritto (e di una territorialità specifica codificata dal lavoro salariato) e il progressivo passaggio al modo di produrre odierno, quindi a forme di relazioni tra locale e globale, tra luoghi e mondo, nel quale il lavoro, come relazione privilegiata tra la società e l’ambiente locale, non soltanto non è più garantito, ma in molti casi nemmeno più valorizzato [52] .
Il processo de-ri si riflette sulle varie scale. La fine dell’industria nella città (e l’esodo della produzione industriale dai paesi centrali, detti ancora “industrializzati”) ha avuto delle conseguenze notevoli, come la trasformazione di intere aree ex-industriali, prima in terreni dismessi e poi in nuovi quartieri abitativi o di servizi neoterziari. Ogni volta che ci sono dei cambiamenti in una città, dei nuovi progetti che ne scombussolano l’equilibrio e le relazioni spaziali (ad esempio in occasione di grandi eventi come giochi olimpici o grandi esposizioni, o con la riorganizzazione del sistema del trasporto pubblico) possiamo osservare, o subire in modo più o meno intenso, il processo de-ri. Il passaggio dalla città fordista alla metropoli postindustriale non ha implicato soltanto cambiamenti spaziali ma anche profondi cambiamenti sociali, sul piano delle rappresentazioni culturali e dell’identità, delle relazioni economiche e dei rapporti politici interni ed esterni alla città. Ci sono stati (e ve ne saranno ancor più nel futuro) anche cambiamenti ambientali. La città postindustriale – per il momento – produce più rifiuti e la sua mobilità è molto più inquinante di quella della vecchia città fordista [53] , che a sua volta consumava molte più risorse della città preindustriale. Più passa il tempo e apparentemente più la società consuma energia, più ne diventa dipendente e più produce quantità di rifiuti e di immissioni inquinanti nell’aria nell’acqua e nel suolo, a dispetto delle dichiarazioni odierne e delle politiche territoriali e ambientali elaborate in nome dello sviluppo sostenibile. Questo mostra però che il cambiamento della territorialità implica anche una crisi ecologica, un processo di rottura-ricostruzione del rapporto tra società e ambiente. Ci si può domandare se il processo de-ri (che ritroviamo a tutte le epoche) potrebbe oggi anche funzionare in un’altra direzione e quindi essere anche la chiave di un cambiamento di territorialità verso un mondo più sostenibile. Meno insostenibile.
1. Cf. Lofland L.H. (1998) The Public Realm: Exploring the City’s Quintessential Social Territory, Aldine de Gruyter, New York., p. 9.
2. L’immagine che ci facciamo di una città appare spesso soltanto attraverso le sue forme estetiche; la problematica di questo saggio, tuttavia, non si oppone al fatto che il più delle volte, nei centri delle metropoli del sud e del nord, spazio formale e spazio relazionale coincidano: è questo che fa lo charme di una città. Chi scrive, quando si trova in una grande città e ne ha il tempo, non si priva certo del piacere di “scoprirla” vagando qua e la senza meta per gli spazi pubblici formali, sognando di fare incontri inattesi. Per questa strategia di scoperta urbana, che negli anni ’80 i geografi chiamarono dérive urbaine, si veda il saggio di Régine Robin (2009) Mégapolis. Les derniers pas du flâneur, Stock, Paris.
3. Cf. Bauman Z. (tr.it. 2008) Vita liquida, Laterza, Roma – Bari, pp. 80-81.
4. La parola serendipity proviene da un racconto dalla tradizione indiana, i Tre Principi di Serendip, trascritto da Horace Walpole in una lettera del 1754. Per lui la “serendipity” era la caratteristica che si produce quando questi Principi viaggiano « making discoveries […] of things which they were not in quest of ». Per questo oggi la parola significa capacità di affrontare situazioni impreviste, di dominare e mettere a frutto gli incontri fortuiti, situazioni apparentemente negative che possono diventare positive, in funzione delle strategie che adottiamo. Cf. Lévy J. (2004), "Serendipity.", EspacesTemps.net, Mensuelles, 13.01.2004.
5. Cf. Habermas J. (1962) Strukturwandel der Öffentlichkeit, Untersuchungen zu einer Kategorie der bu_rgerlichen Gesellschaft, H. Luchterhand , Neuwied, trad. fr. L’Espace public: archéologie de la publicité comme dimension constitutive de la société bourgeoise, Payot, Paris 1978. Trad. engl. The structural Transformation of the Public Sphere. An Inquiry into Category of a Bourgeois Society, MIT Press, Cambridge, Massachusetts, 1993.
6. Insieme alle vie di comunicazione e alle reti del trasporto pubblico questo spazio pubblico è quello dei flussi che fanno funzionare ogni giorno il metabolismo della città, senza il quale la vita urbana non sarebbe possibile.
7. Ley D. (1983) Social Geography of the City, Harper & Row, New York.
8. Negli anni ’60 e ’70, per quanto mi ricordi a Lugano, anche noi adolescenti, ci “appropriavamo” degli spazi del quartiere, molto spesso in funzione di giochi di gruppo o anche tra di bande rivali per la conquista di un territorio simbolico (un giardinetto, un terreno di calcio, il fondo nascosto di un giardino privato…).
9. Cf. Bauman Z. (tr.it. 2006) Modernità Liquida, Laterza Bari-Roma, pp. 30-31.
10. Ibid., pp. 87 e ss.
11. Davis M. (1992) “Fortress Los Angeles: the Militarization of Urban Space”, in Sorkin M. (ed) Variation on a Theme Park. The New American City and the End of Public Space, Hill and Wang, New York, pp. 154-180.
12. Augé M. (1992) Non-Lieux, Seuil, Paris ; id. (tr. it. 1993) Nonluoghi, Eleuthera, Milano, pp. 71 e ss.).
13. Daniel Libeskind, Intervista a Andreas Keiser, Swissinfo, 8 ottobre 2008 (www.swissinfo.ch).
14. Saskia Sassen, Intervista a Grégoire Allix, trad., Le Monde, 21 avril 2009.
15. Ad esempio come Millenium Park a Chicago le Ramblas del Mar di Barcellona, il Porto Antico di Genova, o ancora l’Eje Ambiental di Bogotá.
16. Guerra C. et al. (2005) Proprietà e qualità dello spazio urbano in Ticino: trasformazioni recenti, Dipartimento del Territorio, Bellinzona
17. United Nations - Department of Economic and Social Affairs - Population Division (2008), Urban and Rural Areas 2007, New York (www.unpopulation.org).
18. Nel 1975 le città con più di un milione di abitanti erano 192 di cui solo 3 con più di dieci milioni.
19. Soja E. & Kanai M. (2007) “The urbanization of the World”, in: Burdett R. & Sudjic (eds. 2007) The Endless City, Phaidon, London & New York, pp. 54-69.
20. UNO-Habitat (2008) State of the Word’s Cities 2008/09 Harmonious Cities, EarthScan Publishing, London / Sterling VA, pp. 90 e ss.
21. Granotier B. (1980) La planète des bidonvilles, Seuil, Paris
22. Davis M. (tr. it. 2006) Il Pianeta degli slum, Feltrinelli, Milano, p. 27.
23. Saraví G. A. (2004) Segregación urbana y espacio público: los jóvenes en enclaves de pobreza estructural, Revista de la CEPAL, Agosto 2004, 42 p.
24. Negt O., Kluge A. (1972) Zur Organisationanalyse von bürgerlicher und proletarischer Öffentlichkeit, Suhrkamp, Frankfurt.
25. Friedmann J. (2004) Civil Society Revisited: Travels in Latin America and China, For presentation at the Conference on Sustainability and Urban Growth in Developing Countries, Monte Verità, Ascona, Switzerland, November 2004
26. Saraví G. A. (2004) Segregación... op. cit.
27. Mi riprometto di tornare sull’argomento. Pochi utenti di Facebook sono consapevoli che la società che gestisce il sito utilizza i loro dati personali come principale risorsa commerciale e posta in gioco politica, vendendoli al miglior offerente e mettendoli a disposizione del Governo degli Stati Uniti in virtù del Patriot Act (che stabilisce severe limitazioni alla protezione dei dati personali).
28. Lefebvre H. (1974) La production de l’espace, 4e édition, Anthropos, Paris, 2000, pp. 42 e ss.
29. Ibid., p. 42.
30. Per un approccio recente agli spazi di rappresentazione di Lefebvre, si veda anche Schmid C. (2005) Networks, Borders, Differences: Toward a Theory of the Urban, in Diener R., Herzog J., Meili M., de Meuron P. e Schmid C. (2005) Switzerland An Urban Portrait, Book 1: Introduction, Bikäuser Publishers, Basel, pp. 164-173.
31. Lofland L.H. (1998) The Public Realm.. op. cit.
32. Soja E. (1971) The Political Organization of Space, Association of American Geographers, Resource Paper, Washington; Raffestin C. (1980) Pour une géographie du pouvoir, Litec, Paris (tr. it. 1981, "Per una geografia del potere", Unicopli, Milano); Sack R. (1986) Human Territoriality : Its Theory and History, Cambridge University Press, Cambridge (Mass.).
33. Si veda, tra altri, la raccolta di saggi a cura di Debarbieux B. et Vanier M. (eds. 2002) Ces territorialités qui se dessinent, L’aube/Datar, Paris.
34. Herrera Gómez D., Piazzini S. C. E. (eds. 2006) (Des)territorialidades y (No) lugares. Procesos de configuración y transformación social del espacio, La Carreta Social, Universidad de Antiquia, Medellin.
35. Foucault M. (1976) Histoire de la sexualité 1. La volonté de savoir, Gallimard, Paris.
36. Raffestin C. (1980) Pour une géographie… op. cit.
37. Si veda Dematteis G. et al. (1999) I futuri della città. Tesi a confronto, Franco Angeli, Milano..
38. Wikipedia ricorda che il vocabolo déconstruction fu inventato da Jacques Derrida per tradurre le parole tedesche Destruktion und Abbau nel saggio Essere e Tempo di Martin Heidegger.
39. Harley B. (1992) « Deconstructing the Map », in : Barnes T. & Duncan J. (eds. 2002) Writing Worlds: Discourse, Text and Metaphor in the Representation of Landscape, Rutledge, London and NY, pp. 231-247.
40. Ibid., p. 233.
41. Lévy J. (2008) “The City is Back”, in Lévy J. (ed. 2008) The City, Ashgate, London.
42. Foucault M. (1967) Des espaces autres. Hétérotopies, Conférence au Cercle d'études architecturales, 14 mars 1967, in Architecture, Mouvement, Continuité, n°5, octobre 1984, pp. 46-49.
43. L’analyse en termes de pouvoir ne doit pas postuler comme données initiales la souveraineté de l’Etat, la forme, la loi ou l’unité globale d’une domination: celles-ci n’en sont plutôt que les formes terminales. Par pouvoir, il me semble qu’il faut comprendre d’abord la multiplicités des champs de force qui sont immanents au domaine où il s’exercent, et sont constitutifs de leur organisation ; le jeu qui par voie de luttes et d’affrontements incessants les transforme, les renforce, les inverse (…). Foucault (1976) pp. 121-122.
44. Raffestin C. (1980), pp. 46-47.
45. Anche questo processo è descrivibile a diverse scale. Pensiamo, altro esempio a una famiglia che per poter costruire o ampliare o comprare una casa (poste in gioco, obiettivi), deve attuare delle strategie – ad esempio per incrementare il reddito o per ottenere un mutuo ipotecario a condizioni accettabili – che le assicurino nel contempo l’educazione dei figli e il pagamento delle fatture a fine mese.
46. Cf. Torricelli G.P. (2002) La carte (prospective) comme médiation symbolique, in Ces territorialités qui se dessinent, B. Debarbieux et P. Vanier (eds.), op. cit. pp. 145-160.
47. Si veda per approfondimenti ancora Raffestin (1980), Pour une géographie…, op. cit., pp. 129 e ss.
48. Raffestin C. et Bresso M. (1979), Travail Espace Pouvoir, L’Age d’Homme, Lausanne.
49. Raffestin C. (1980), Pour une géographie…, op. cit., p. 47.
50. Raffestin C. (1984) « Territorializzazione, deterritorrializzazione, riterritorializzazione e informazione », in Regione e regionalizzazione, a cura di A. Turco, Franco Angeli, Milano, pp. 69-82.
51. Cf. Mancebo F. (2006) « Katrina et la Nouvelle Orléans : entre risques ‘naturels’ et aménagement par l’absurde », Cybergeo : Revue européenne de géographie, n. 353, 12 octobre 2006, 14 p.
52. Per approfondimenti, si veda ancora Raffestin (1984) e Soja E. W. (2000) Potmetropolis. Critical Studies of Cities and Regions, Blackwell Publishers, Malden (Mass)., pp. 151-152 e 211-212.
53. Newman P. & Kenworthy J. (1999) Sustainability and Cities, Overcome Automobile Dependence, Island Press, Washington.